A chi non piacerebbe lasciare questa terra ridendo a crepapelle, proprio nel senso più letterale dell’espressione? Anche Luciano De Crescenzo sottoscrive. Anzi, quando lo intervistai anni fa, era arrivato alla conclusione che sarebbe disposto a pagare soldoni per morire dal ridere. In realtà non siamo a conoscenza di casi di morte così “ridanciani”, anzi, la stessa esperienza privata dello scrittore salito alla ribalta con il libro “Così parlò Bellavista”, narra di altro: «Non a tutti capita la fortuna che ha avuto Charlie Chaplin (sul mimo si racconta che se ne andò mentre faceva l’amore, ndr), solitamente le cose vanno diversamente – ci dice – Alcuni anni fa andai a Torino a fare visita a Norberto Bobbio. Mi venne ad aprire lui in persona appoggiato ad un girello. Al suo fianco l’inseparabile cameriere che lo aiutava in tutto, anche ad andare in bagno. E la dignità, continuo a chiedermi da allora? In quell’istante ho capito che non conviene superare i 90 anni e che forse l’età buona per andarsene sono gli 88» – e ride – .

Mentre racconta lancia anche un appello ai lettori. Proprio non va giù al filosofo partenopeo di vedere le proprie facoltà venire meno: «Dovremmo raccogliere molti fondi e dare incarico ad un gruppo di studiosi di scoprire come farci morire d’infarto. Ad ogni morte è accoppiato un dolore, ma ricordiamoci che il dolore totale della morte è sempre lo stesso. Se uno muore all’improvviso, come accade per un infarto, la parte più grossa di dolore se la prende chi resta. Ecco, io spero di fare soffrire gli altri, ma per riuscirci dovrei avere a disposizione una sorta di pillola “salva morte” che mi garantisca l’infarto e la conseguente morte veloce».

Che abbia un male oscuro del quale nessuno è a conoscenza? Gli abbiamo esterniamo il nostro dubbio, ma lui ci rassicura tirando fuori il meglio della sua natura contabile, da ligio ex-ingegnere I.B.M.. «Ora sto bene, ma le statistiche mi dicono che mi restano al massimo una decina d’anni. Considerato quanto abbiamo appena detto, vi confesso che vorrei trovare il coraggio di suicidarmi. Purtroppo io sono per il suicidio estetico. Abito al IV piano e se dovessi buttarmi di sotto mi irrita pensare al sangue sul marciapiede. Idem se scegliessi la pistola perché per morire subito bisogna spararsi direttamente in bocca. Immaginate lo scempio? Forse il gas sarebbe la cosa migliore, ma resta il rischio di fare saltare per aria tutto il palazzo. Per l’occasione bisognerebbe comprarsi una casetta. Piccolina, isolata, in mezzo alla compagna, ma io non ce l’ho».

Se all’inizio avevamo creduto ad un discorso giocoso, via via che parliamo abbiamo trovato il “professore” molto preparato. «Il problema vero è se esiste o meno un dopo. La reincarnazione non mi consola affatto. Solo la memoria può testimoniare una vera reincarnazione. Se io sono stato a suo tempo Giulio Cesare, ma non me lo ricordo a cosa mi serve? A niente. Se dopo morto mi reincarno in un’altra persona, ma questa non si ricorda di me cosa può fregarmene? E’ un’altra persona non sono io». L’argomento lo ha davvero riflettuto a fondo, quasi si trattasse di un film al quale lui stesso dovrà fare la regia. E, forse per deformazione professionale, una parte di quanto accadrà ‘dopo” l’ha comunque già ipotecata: «Il mio testamento avrà valore soltanto il giorno in cui verrò cremato. I miei eredi quindi non avranno una lira se prima non avranno provveduto alla mia cremazione e a disperdere le ceneri a mare sulla costiera amalfitana. Qualche anno fa avevo scritto una specie di piccolo epitaffio. Diceva semplicemente “Vi informo che in questo momento sto bene”, ma adesso è un problema superato».

A differenza della sua mamma che, grazie alla convinzione dell’imminente incontro con Dio è morta con il sorriso sulle labbra, Luciano De Crescenzo dalla sua non ha neanche quella che i cristiani chiamano fede. «Sull’Aldilà non riesco proprio a pronunciarmi, anzi, devo chiarire che io non sono un credente, sono un “dubitante”. Non a caso “Il dubbio” edito da Mondadori è tra i miei lavori quello che preferisco». Più che la religione a confortarlo è stata sempre la lettura. «Mi sono innamorato dell’amore di sapere quando avevo 15 anni. C’era la guerra e venivo regolarmente mandato in cantina per evitare il rastrellamento dei tedeschi. Passavo molto tempo là sotto e dentro a degli scatoloni avevo trovato una trentina di libri, tutti di P. G. Wodehouse, un grande umorista inglese. Mi sono sempre chiesto se mi siano piaciuti così tanto perché avevo il senso dell’humour o se mi sia venuto il senso dell’humour perché li avevo letti tutti». Un quesito destinato a restare senza risposta, come la domanda che rilancia, tra il serio e il faceto, in chiusura d’intervista. «Crede che i lettori mi aiuterebbero a trovare i fondi per la “pillola salva morte”?».