Sono passati anni, ma la sua fama non ha mai smesso di brillare. Giulio Rapetti in arte Mogol viene ancora indistintamente considerato, senza nulla togliere agli altri, come il paroliere italiano per eccellenza. Io l’ho incontrato tempo fa dietro le quinte dell’Auditorium albese della Fondazione Ferrero, dopo una interessante conferenza che aveva ripercorso le tracce musicali di intere generazioni dagli anni ’60 ad oggi. Ho il piacere di raccontarlo perché poche persone mi sorprendono, intendendo per questa frase la conferma, o meno (da qui la sorpresa), di quanto mi aspettavo preparandomi su colui che andrò ad intervistare. Mogol ci è riuscito. Mi attendevo un poeta della parola, ed ho trovato un uomo dotato di sottile ironia, ma, per come egli stesso ha ammesso, molto pragmatico, per nulla prestato all’idea mediatica che abbiamo degli artisti. La sorpresa non mi ha delusa, anzi il contrario, perché mi sono resa subito conto che, per chiunque volesse valutare la possibilità di fare questo mestiere, potrebbe essere una speranza. Non a caso, con poche chiare parole, ha distrutto il mito del genio, rincantucciandolo in una dimensione di normalità estrema. “Il potenziale creativo – ha infatti detto – appartiene a tutti. Ognuno di noi ha modo di coltivarsi e può dare molto di più di quanto pensa di potere dare. È capitato a me”.

Come si fa a credergli? Visto che nel suo settore è un’autorità, basta dargli fiducia, a maggiore ragione quando lo si ascolta fissare saldamente la sua verità: “Non accetto il termine ‘canzone d’autore’. Solo la gente, nei secoli, è il più grande critico del mondo. È cos’ da sempre. Non ha senso la storiella che ci vuole l’imprimatur, la gente non sbaglia ed è per questo che tutto nasce dalla cultura popolare”.

Quindi per Mogol ognuno può diventare un paroliere? “Sì, ci si arriva passo dopo passo. Io stesso solo nel tempo ho acquisito delle esperienze che poi si sono inserite in una meccanica. È come guidare l’auto. All’inizio devi prestare attenzione ad ogni singolo gesto, poi riesci a farlo meccanicamente e a fare altre cose insieme. Anche con la metrica e la rima si può andare in automatico”.

Dentro, il diavoletto mi suggeriva che ci doveva essere almeno un’attitudine, ma Mogol ha tacitato il diavolo con l’acqua santa. “L’unica condizione è quella di scrivere in libertà, perché chi è ancorato non può volare. Non bisogna avere in testa la mercificazione, solo così si arriva ad uno stato di grazia, una sorta di magia che riguarda tutti coloro che investono totalmente in quello in cui credono”.

Sebbene reticente, ci svela anche come è davvero andata la storia secondo cui a scrivere le parole di Arcobaleno, sia stato, dall’Al di là, lo stesso Lucio Battisti. “Non lo racconto mai volentieri perché certe cose si dovrebbero vivere e dimenticare, odio la speculazione, comunque…La mia segretaria ricevette una strana telefonata dalla Spagna da una signora che sosteneva di essere stata contattata in sogno da Battisti. Sosteneva di avere ricevuto istruzioni per farmi sapere che avrei dovuto scrivere una canzone interpretando il pensiero di Luco e dovevo scriverla come se la dedicasse a me. Non avevo mai avuto a che fare con la parapsicologia e pensavo di avere a che fare con una matta. Lei oltretutto aveva aggiunto che Battisti era disperato e che aspettava io scrivessi questa canzone dal titolo Arcobaleno, che si sa, da sempre simboleggia il ponte tra i vivi e i morti. Ne parlai con un’amica, la quale a sua volta ne parlò con un’altra, ma io avevo chiuso la cosa. Invece, tramite l’amica dell’amica, dopo pochi giorni mi arrivò un fax della testata Firma che in copertina riportava di avere sognato Battisti e l’Arcobaleno. Il fatto mi colpì perché la coincidenza di due persone che dicevano la stessa cosa era straordinaria. All’indomani ero da Celentano e c’era anche Gianni Bella e ne parlai con loro lamentando la mancanza di una musica. Gianni per caso ne aveva una pronta rifiutata da Celentano e quando l’ascoltai mi emozionai perché capii che era quella la sua musica. Il giorno dopo ritornando in Umbria da Milano dettai il testo alla mia amica in auto, anche se la frase “Spero che un giorno io ti riesca a toccare” non mi convinceva.  La settimana dopo tornai da Adriano che canta in casa dove ha una sala di incisione e che mi ha raccontato che nella notte si era svegliato e l’aveva cantata una volta, poi l’aveva riprovata ed era accaduto un fatto incredibile, all’ascolto non riusciva a distinguere la prima dalla seconda, era come se fossero state registrate tanto erano identiche, cos’, ha tenuto la prima e gettato la seconda. È stata la prima ed unica volta che Adriano ha cantato in sala d’incisione Arcobaleno, in pratica buona la prima. Su questa canzone ci sono poi state altre coincidenze, ma quella più cara a me è accaduta su una strada dopo l’uscita Settebagni. La mia amica mi fece notare che in cielo c’erano due arcobaleni contemporaneamente. Quello di destra si è spostato sulla strada che percorrevamo ed è salito sul cofano. Mi ha toccato. Da allora, io che sono così concreto, mi sono orientato a pensare che ci sia un mondo parallelo e una possibilità di contatto con esso”.

Per finire, ha voluto chiarire una cosa sulla quale è stato scritto molto, anche di sbagliato. La prima concerne il suo nome d’arte. “Non è vero che si lega ad una dinastia di Mongoli, è tutto più semplice e bizzarro. Mandai alla Siae 30 pseudonimi, ma non ce n’era uno libero. Mi dissero allora di  inviarne 120. Misi un foglio in ufficio ed ognuno che passava scriveva la propria idea. Rinviai la lista alla Siae che scelse per me Mogol, però non ho saputo chi lo scrisse per me in quanto non lo ha mai rivendicato. È una cosa accaduta senza regia”. Comunque, tanto per ricordarlo, è stato chiamato Mogol il più grande brillante del mondo, il cuore di una nuova stella del firmamento grande come la luna, un Dio della verità, ed è anche tale il Gran Mogol di Paperino e delle Giovani Marmotte.