“Se vedi uno che riposa aiutalo”, è uno dei 10 comandamenti di chi vive nello Stato di Bahia e, in questa parte di mondo, l’unica città a potersi fregiare di diritto del prefisso slow, tanto caro al nostro connazionale Carlin Petrini, è l’ex capitale brasiliana Salvador de Bahia.

Qui sembra andare tutto a rilento. Se siete milanesi vi sentirete in astinenza da frenesia e forse preferireste la caotica San Paolo. Se siete romani non avrete dubbi nello scegliere la caciarona Rio De Janeiro. Ma se di pancia sapete di essere un poco napoletani, Bahia farà al caso vostro perché significa che avete voglia di un Brasile di relax, dove l’amore per la vita lenta ha fatto nascere tavole della legge quanto mai ironiche.

Tant’è che il secondo comandamento recita “Il lavoro è salute, lascialo ai malati” e potete ben comprendere quanto anche il terzo, e giù così fino al decimo, siano un inno all’ozio e alla lentezza. Se con questo decalogo i bahiani si sono fatti la fama di essere pigri, la ragione per cui hanno un naturale imprinting allo slow living è da ricercarsi nel loro DNA di schiavi, deportati dall’Africa dai colonizzatori portoghesi.

Bahia infatti è un Brasile in black. L’85% degli indigeni ha radici africane e dopo avere vissuto in schiavitù per generazioni, non appena riavuta la libertà si sono presi una rivincita sulla vita rallentando i ritmi come in un fermo immagine.

Oggi rappresentano l’etnia predominante e, mentre in altre parti di questa nazione avere discendenze afro è quasi sconveniente, a Bahia negli ultimi anni è cresciuta una certa intellighenzia nera, orgogliosa delle proprie radici e del proprio colore di pelle, quanto mai impegnata a mantenere vive le tradizioni afro.

E il black sta quasi imponendosi sul white. Sergio Guerra, fotografo di fama mondiale, non più tardi di due mesi fa, ha tappezzato tutta Salvador con poster di persone comuni, però tassativamente afro-brasiliane. A Salvador è nata anche una particolare industria di cosmesi attenta al trucco, alle tinture, ai prodotti ideali per la pigmentata epidermide e gli ispidi capelli dei neri.

Non solo, sono nate pubblicazioni, come “Raca Brasil”, che mettono in primo piano la gente di colore. E dal 2006 nelle scuole dello Stato di Bahia è previsto addirittura l’insegnamento della cultura africana.

Per questo inedito Brasile si parla oramai di orgoglio negro dove procedere con un occhio al passato, scavando in un retroterra che arriva da est e s’imbeve di esoterismo tribale. Ad esempio il candomblè, una religione animista legata alle forze della natura e praticata dagli schiavi africani, osteggiata a lungo dai coloni, perseguitata dalla polizia e repressa fino al 1976 quando il Governatore di Bahia ne ha legalizzato i riti.

Ancora oggi per le sue origini viene confusa con la macumba. Si pratica tramite la lettura delle conchiglie lanciate dalle cosiddette “madri di Santo”, cioè dalle sacerdotesse del candomblè. L’icona di queste madri è stata senza dubbio Mae Menininha Do Gantois (1894-1986,) talmente venerata negli anni ’80 che chiunque arrivava a Salvador de Bahia cercava di incontrarla per conoscere la buona o la mala sorte.

Al candomblè ricorrono abitualmente personalità di ogni rango, dagli industriali alla gente povera, ma da madre Menininha sono passati soprattutto i più potenti del mondo, non solo i famosissimi brasiliani, lo scrittore Jorge Amado e il cantante Gilberto Gil che, tra l’altro, le ha dedicato un bellissimo requiem.

Lo sviluppo avuto da questo spicchio di terra grande come la Francia piacerebbe anche all’esploratore del Nuovo Mondo Amerigo Vespucci, amante delle commistioni e primo europeo ad attraccare nella Baia De Todos os Santos, per estensione la seconda baia più grande al mondo con i suoi 1.100 mtq, esattamente davanti a Salvador.

Comunque per capire bene questa piccola Africa brasiliana bisogna confrontarla con il resto della nazione. Partiamo da un cult, il carnevale brasiliano.

Mentre quello sfavillante di Rio resta in balia di maschere e costumi luccicanti di paillettes, il carnevale di Salvador ha un suo carattere distinto, più da vivere che da vedere.

È diventato la festa di strada più grande del pianeta entrando nel libro dei Guinness con un milione di presenze per le vie, e sta trovando grazie ad una nuova, curiosa moda, una crescita costante.

“Oggi ne ho baciati 6 – si può sentire dire a un giovane, indipendentemente dal sesso, mentre l’amico o l’amica di turno gli risponde – Io invece sono arrivato a 10″.

La moda è quella di fermare per strada chi ti piace e baciarlo a più non posso.

E se per alcuni la situazione può risultare divertente, per altri la promiscuità che ne nasce viaggia al limite con l’imbarazzo. Le belle turiste sono avvisate. Questo è il bahiano, queste sono le radici nere, più irriverenti e rumorose di altri “colored”, sebbene i conti vengano poi riequilibrati con la disponibilità. Qua se la gente ti sorride lo fa con il cuore perché nello Stato di Bahia la fabbrica del sorriso non esiste.

Ritroviamo l’influenza africana anche negli angoli più visitati dai turisti, come il Pelourinho di Salvador, quartiere Patrimonio dell’Umanità al quale si può accedere prendendo l’Elevator Lacerda, spettacolare ascensore che vi trasferirà dalla parte cittadina bassa a quella alta.

Ma prima di buttarsi nei suoi storici viottoli, vale la pena visitare il Convento di San Francesco, un trionfo di barocco ricoperto d’oro zecchino, esplosione di colori che passa dal celeste degli azulejos, caratteristiche mattonelle di ceramica dipinte, al giallo dell’oro della Cattedrale e al nero del palissandro intarsiato degli armadi della sacrestia.

Nessun portoghese mancherebbe mai questa tappa: una serie di azulejos raffigura com’era Lisbona prima di venire distrutta dal terribile terremoto del 1755, unica e rara testimonianza.

Dopo l’edificio più opulento, il Brasile africano sarà ancora più evidente. Vi farete largo tra ragazzini decisi a rifilarvi souvenir, ma non a ritmo di samba perchè qui non ne esiste scuola, ma a ritmo di musica percussiva, come quella dei gruppi afro Oludum e Timbalada.

Dribblerete le mulatas in costume d’epoca schiavista che per una foto ricordo vi chiederanno qualche real e lascerete alle vostre spalle decine di scuole di Capoeira, rituale tra danza, canto e arte marziale. Prova che l’Africa cadenza forte il suo battito.

Passeggiando tra i tipici quadri dalle strette casupole coloratissime, incontrerete i bahiani della kalajè, donne e uomini venditori di piatti africani, il cui nome arriva da un passato a base di fagioli.

Nei loro menu non scritti si può scegliere tra gli acarajé, frittelle ripiene, i vatapà, una farina di pane, noccioline e gamberetti secchi, la moqueca, zuppa di frutti di mare cotta nel dendé, un olio molto denso che serve per friggere e qualche dolce a base di tapioca e cocco.

I Kalajèhiani vendono anche cartocci di cibo a 1 solo real, sovente l’unico pasto giornaliero dei meno abbienti, tra l’altro decisamente poco molesti.

“E siccome a Bahia nella miseria ci si inciampa per strada noterete le inferriate a tutte le finestre, comprese quelle al piano terreno di ogni quartiere perchè per tanto si possa essere in basso ci sarà sempre qualcuno che possiede meno.

Sarà quindi l’idea di un Brasile inaspettato a mettere la voglia di andarci, magari dando ascolto allo scrittore brasiliano Jorge Amado che parla di “un popolo meticcio, cordiale, povero, sensibile e civilizzato che abita un paesaggio da sogno” e che nei suoi libri si sofferma particolarmente sulla magia misteriosa del luogo sottolineando che qui “niente è riconducibile al resto della nazione”.