Quando si pensa al Madagascar si immaginano subito i baobab, gli zebù, i lemuri e quella terra rossa che ha fatto del suo isolamento il principale punto di fascino, realtà uniche che si possono trovare soltanto qua. Ma esiste un Madagascar che non ci si aspetta, ed è la parte nord orientale affacciata sull’Oceano Indiano, con la sorprendente isola Sainte Marie, interessanti Riserve protette, piccoli villaggi di pescatori e innumerevoli spiagge deserte dove trovare la quiete della mente e del corpo. Un’ampia area punteggiata da una catenella di laghi collegati tra loro dal navigabile Canale di Pangalanes costruito dai francesi durante la colonizzazione, il modo migliore per spostarsi in sicurezza, visto che si estende per oltre 645 km e permette di costeggiare da Foulpointe a Farafangana restando al riparo dalla forza delle onde oceaniche.

Da Antananarivo ogni giorno c’è il volo per Ambodifotatra, la capitale di Sainte Marie l’isola lunga 60 km e larga 10 che in lingua malgascia viene detta Nosy Boraha e che, in passato, tra il XVII e XVIII secolo, è stata la base preferita di un covo di pirati che erano soliti depredare le flotte mercantili che rientravano dalle Indie Orientali.

Col passare dei secoli, l’integrazione tra la popolazione del luogo e i bucanieri più stanziali, quali i famosi William Kid e Robert Culliford, ha originato gli Zana-Malata, un gruppo etnico di sangue misto, i cui discendenti hanno cambiato vita e li ritroviamo oggi nelle comuni vesti di commercianti. Ma tutta l’isola è ancora impregnata delle strabilianti vicende piratesche e le loro gesta sono diventate il marketing di punta di moltissimi souvenir, magliette comprese.

Per chi volesse ripercorre meglio le loro orme ascoltando anche la storia di Libertalia, il loro Stato finito in modo dissoluto, una delle escursioni più interessanti è quella al Cimitero dei Pirati, dove sulla tomba di un francese discendente di un pirata vedrete inciso il vessillo classico dei bucanieri, teschio ed ossa incrociate, o dove potrete ammirare una tomba totalmente in roccia corallina, o una croce fatta con una palla da cannone originale. Per chi avesse fame, a pochi metri c’è Jardin d’Eden con la sua gustosa ‘salade de pecheur’ (insalata del pescatore), ideale anche per una pausa scambiando qualche impressione con la piacevole titolare Marie France.

L’area marina prospiciente l’isola, anche detta Delle Donne perché i pirati dopo averle rapite le portavano qui, è la zona di riproduzione delle megattere che a fine aprile migrano lasciando l’Antartico e qui davanti, tra metà giugno e metà settembre, partoriscono e svezzano i balenotteri, uno spettacolo incredibile.

Ma Sainte Marie regala anche molto altro, non solo il tradizionale mercato quotidiano dove imparare a riconoscere i numerosi frutti tropicali o la Chiesa in mattoni più vecchia del Madagascar costruita nel 1859, non solo la cosiddetta isola Madame, una sorta di mini sopraelevata che collega Ambodifotatra all’area di Belle Vue dove è ospitato il Cimitero dei Pirati dalla cui sommità lo sguardo spazia a 360 gradi, ma anche uno stile di vita molto simile a quello europeo, dove il gusto per ‘le bon vivre’ ha influenzato i locali portando alcuni imprenditori internazionali a scegliere di metterci radici.

Tra questi, l’italiano Maurizio Cirillo che ha aperto il Riake Resort, una struttura ricettiva con 12 bungalow su una spiaggia bianca che per ampiezza e lunghezza rammenta un poco quella più famosa di Copacabana. Oppure l’austriaco Manfred che, sempre sull’Oceano e lontano dalla civiltà, ha aperto l’Adonys Eden Lodge, auto alimentato dal solare e gestito con molta cura insieme al socio Adonys, cura che si nota anche nei dettagli con i quali sono stati arredati i sei bungalow. Ma anche il francese Jilles con sua moglie Fabiola, che hanno aperto Les Tipaniers Lodge che si affaccia su una baia tranquilla dove con qualsiasi tempo anche i principianti possono fare splendidi bagni.

All’indomani, nelle vicinanze della città di Toamasina, o Tamatave in lingua malgascia, una cittadina fondata dai portoghesi animata da 6000 risciò e 300 tuc tuc a motore, con la bellissima Piazza Bien Amée (assolutamente da vedere), prendiamo un barcone per navigare il Canale di Pangalanes costruito dai francesi durante la colonizzazione e per tre ore procediamo lentamente fino a raggiungere Akanin’ny Nofy con l’omonima Riserva privata.

Attraversiamo le lagune poco profonde di Irangy, Sarobakina, Nosive, Andovolalina e Ampitabe, i cui laghi, alimentati da acqua dolce grazie agli innumerevoli corsi d’acqua che discendono verso il mare, sono protetti dalla linea di dune costiere che li isolano dall’acqua salata dell’Oceano. Su ogni ogni sponda di questa serie di idrovie naturali ed artificiali, la vita cambia colori e colture, bananeti, canna da zucchero, palme del viaggiatore e una lussureggiante vegetazione palustre ricopre ogni centimetro. I bambini sulla riva, quando non si gettano in acqua per seguire la scia della barca, si agitano in saluti festosi. Quando le acque del canale si allargano per entrare nel lago successivo la superficie si punteggia di gabbie galleggianti dentro le quali si allevano pesci.

Durante la navigazione, oltre a tantissimi piccole piroghe utilizzate per gli spostamenti dalle famiglie in sostituzione delle auto, si incontrano chiatte stracolme di merci, alcune delle quali procedono spinte soltanto con l’ausilio dei remi, perché non hanno motore. Nei 50 ettari di Akanin’ny Nofy, o nido di sogno, sul lago Ampitabe, in un’escursione fatta all’imbrunire è possibile ammirare l’Aye Aye un tipo di lemure notturno dal quale certamente hanno preso spunto i disegnatori dei Gremlins, le creature leggendarie di Steven Spielberg, perché la somiglianza è incredibile.

Più belli a vedersi sono gli Indri Indri, i lemuri più grandi del Madagascar il cui incontro è un momento fortunato perché sono considerati animali sacri e hanno dato il via anche alla leggendaria storia di Babakote, un Indri Indri che ha salvato un bambino da morte certa. E chi salva i lemuri dai fossa, i loro acerrimi nemici?

Con l’arrivo della luce ci spostiamo in barca fino a Manambato dove ci attende un’auto che ci porterà fino ad un’altra Riserva privata, quella del Vakona Forest di Andasibe, ideale per chi ha piacere di vedere da vicino diverse specie di lemuri tra i 60 presenti in Madagascar, tra cui i lemuri dalla coda ad anelli, i sifaka, i lemuri donnola, iniziando a riconoscerne i tratti, per poi ritrovarli, sempre liberi ma in un’area molto più ampia e dispersiva, nel vicino Parco Nazionale di Andasibe dove potere ammirare anche la flora endemica, dalle piante carnivore alle numerose piante medicinali che i malgasci ancora utilizzano abitualmente per curarsi.

In attesa del volo di rientro, gli ultimi giorni in Madagascar li dedichiamo a Antananarivo, o Tana, come tutti chiamano affettuosamente la capitale, un microcosmo che non si può paragonare a nessun’altra città africana. Mentre la si gira ci viene incontro la sua identità dai mille profumi, colori e leggende. Ci sono le 1300 specie di orchidee rare e colorate. C’è la vaniglia raccolta nelle centinaia di piantagioni e impollinata a mano (visto che non ci sono insetti che lo fanno). C’è la memoria storica delle 18 diverse etnie malgasce, in particolare della tribù Merina, con l’interessante visita al Museo nazionale dove sono custoditi molti doni fatti nei secoli ai Re di questa dinastia.

Ci sono le ricette degli straordinari piatti tipici, dalla Coda di zebù con le arachidi al Ravitoto (si pronuncia raf tu tu), un delizioso stufato cucinato con l’erba di manioca ridotta in fine polvere verde, ma ci sono anche i piatti dei cuochi che in Italia conquisterebbero le tre stelle, come sarebbe per Rakotondravelo Hary Liva, lo Chef di La Varangue dalla cui cucina escono gusti straordinari anche per i palati più esigenti e raffinati (ed il ristorante pare un Museo).

C’è l’abitudine alla riesumazione dei cadaveri, il trasferimento di quelle salme non seppellite subito nel paese di nascita, una speciale cerimonia la cui preparazione dura anche degli anni. E per finire, ci sono i tre gridi dei lemuri, quello di amore, quello di pericolo e quello di saluto. L’ultimo, il più delicato, lo prendiamo a prestito prima di rientrare in Europa.