Quanto brilla la roccia del Guanajuato! Non solo perché è la culla di molti grandi artisti messicani, tra i quali Diego Rivera, Alfredo Jiminez, Chavez Morado e Pedro Vargas. Ma soprattutto perché sin dall’epoca coloniale, oro, argento, ferro, mercurio e cento altri minerali hanno attirato gente in cerca di fortuna e lavoro ed è in questo Stato la gemma più preziosa di tutti i pueblos magicos messicani.

Ci riferiamo a San Miguel de Allende, se non la più incantevole del Messico certamente la cittadina più famosa, sempre zeppa di turisti a regalare un’allegra atmosfera internazionale.

San Miguel de Allende è Patrimonio Unesco e si trova in un importante punto di transito della via dell’argento che si snodava tra Zacatecas e Città del Messico a circa 1910 metri di altitudine. È talmente famosa nel mondo da essere considerata essa stessa come l’oro, tutto l’artigianato che vi viene prodotto riporta scritto Echo in San Miguel (fatto in San Miguel) e va a ruba, inoltre la città sta attirando investimenti ed artisti di fama.

La Fabrica Aurora ne è l’esempio più eclatante, decine di spazi interni ed esterni dove sono esposte le migliori opere contemporanee del Paese, tra questi il simpatico Timo, un personaggio che rammenta un poco Charlie Brown nato dalla fantasia del giovane scultore Rodrigo de la Sierra.

Mentre in città, ideale da girare con la famiglia, perché unisce l’originalità e la capacità di fissare l’attenzione anche dei bimbi, è il Museo del Giocattolo aperto da pochi anni con una gestione piena di iniziative tra cui un concorso annuale per rivalutare l’antica tradizione di reimpiegare il cartone usato per costruire bambole.

Poco lontano, nella quiete di Atotonilco, c’é il Santuario del Jesùs Nazareno che, per i bellissimi affreschi che ricoprono tutta la cupola, le pareti e la navata centrale, é considerata la Cappella Sistina del Messico. Il fondatore ebbe una visione, gli apparve in sogno il Cristo sofferente con corona di spine in testa e flagellato, gli chiese di fare costruire un santuario per la conversione e la purificazione dei peccati e da allora ogni anno migliaia di pellegrini arrivano per pregare.

Sulle sponde del fiume Laja, tra palmeti, cactus, pietra e una piscina di acqua termale, ci fermiamo a pranzare al ristorante Nirvana, il buen ritiro per chi cerca pace e relax anche nelle nove intime originali camere, una diversa dall’altra. La cucina fusion di Juan Carlos Escalante è decisamente all’altezza della sua fama.Non lontano il pueblos fantasma Mineral de Pozos, esempio di una delle tante miniere abbandonate che oggi, però, stanno sorgendo a nuova vita, infatti il centro si sta di nuovo animando ed alcuni intraprendenti commercianti, puntando sulla curiosità dei viaggiatori che vogliono vedere un Messico inalterato, hanno aperto i loro negozietti di souvenir e le loro trattorie. Non solo, il cinema grazie ai particolari scenari selvaggi, gli strizza l’occhio e vengono girati film, soap opera e fiction televisivi.

Per strada, artigiani che fanno il gelato a mano, tortillerie dove acquistare pasta fresca, abbarotes (le drogherie dove si trova tutto), piccoli boticario (farmacie) e, attorno, tra colture di funghi champignons, broccoli, asparago e chile, non é raro incontrare statue e murales con la testa calva di padre Miguel Hidalgo y Costilla, il prete visionario, autentico ribelle idealista che diede a tutti gli effetti il via al movimento d’Indipendenza.

Fu sempre Padre Hidalgo a fondare agli inizi del XIX secolo a Dolores Hidalgo il primo laboratorio di ceramica artigianale che ha reso famoso il luogo per la ceramica di Talavera, anche se i turisti quando arrivano in piazza, prima di fare shopping, si rinfrescano con il gelato ai gusti più impensabili, dal polpo ai gamberoni, dal formaggio alla tequila, dai ciciarrones (cotenna di maiale essicata) al garambujo, una piccolo frutto locale simile al cactus. Fu sempre Hidalgo, in contatto con l’Europa grazie all’ordine dei Gesuiti a cui apparteneva, ad insegnare alla gente del posto a coltivare l’uva e a fare il brandy, a forgiare il ferro e a produrre i bachi da seta, aiutando la cittadina a diventare prospera. Fu proprio qui che nacque il suo grido di dolore per la libertà di questa terra, non a caso a Hidalgo ci sono monumenti, targhe ed una delle 260 aquile con scritto Libertad, che ne onorano la memoria, aquile disseminate in tutto il Messico ad indicare il cammino compiuto per l’Indipendenza.

Causa le sue idee però, nel luglio del 1811 Padre Hidalgo venne catturato dagli spagnoli e fucilato a Chihuahua, la sua testa fu consegnata nella città di Guanajuato e per intimorire la popolazione fu lasciata esposta addirittura 10 anni, insieme a quella di altri leader dell’Indipendenza quali Allende, Aldama e Jimenez, ma il macabro gesto non fece altro che mantenere ulteriormente viva nella memoria collettiva il ricordo degli eroi martiri.

Se da Dolores Hidalgo, dopo avere reso omaggio alla bella tomba di Jiminez, ci si sposta all’alba seguendo ancora per molti chilometri la nera terra vulcanica, è facile vedersi attraversare la strada dai cespugli rotolacampo (o erba mobile), dai veloci correcaminos e dai coyote, si guida due ore verso est per raggiungere Tlalpujahua e comprendere fino in fondo l’enorme evoluzione avuta dallo stato del Guanajuato, passato da un’economia basata sulle miniere ad una che fonda la sua ricchezza sul turismo. La visita al Museo Tecnologico Minero Siglo 19 di Tlalpujahua, ospitato all’interno degli edifici originali di quella che, dalla fine dell’800 al 1930, fu la miniera d’oro e d’argento più produttiva del Messico (la Dos Estrellas), è una sorpresa totale, con l’aiuto di una guida si tocca con mano lo stile di vita dei minatori e come venivano organizzati il lavoro e la sicurezza di chi estraeva i metalli più preziosi del mondo.

Parliamo ancora di questo a tavola all’Hacienda Ucazanaztacua a Tzintzuntzan mentre gustiamo l’insuperabile Zuppa Tarasco, il cui nome si rifà ad un antico gruppo etnico messicano. Questo delizioso hotel boutique è stato costruito e rifinito con molta cura, in tutto e per tutto interamente a mano, con anni di sapiente lavoro artigianale, direttamente dal proprietario Raffaele e dagli indigeni locali. Mentre si assaggiano i cibi tradizionali ammirando l’isola di Pacanda subito di fronte, si imparano anche le usanze dei Purepecha (detti anche Taraschi), i nativi americani stanziatisi in questa regione, una tribù contemporanea agli Aztechi, ma che pare non fu mai sotto il dominio di tale impero.

Tutta gente che, come i pueblos magicos che abbiamo raccontato, ha saputo sorprenderci e conquistarci con una miscela di sapori, colori, profumi e suoni tanto inusuale quanto gradita.